N. 6 – Spazi e Luoghi dell’Architettura
Quali le radici della drammatica crisi socio-urbanistica odierna? Quali rapporti tra ideologie e risultati? Quali relazioni tra pensatori e territorio?
Non è un caso che l’ideologia socialista, tradotta in socialismo utopistico e poi contrastata dal socialismo scientifico, muove grandi passi all’alba della prima rivoluzione industriale. La realtà produce pensiero, più spesso di quanto il pensiero produca realtà. La corsa al rimedio, spesso inconsapevole e illusoria, appartiene a quelle menti che tentano di guardare oltre, che provano a proiettare nel futuro le possibili ricadute di trasformazioni sociali apparentemente convincenti.
Così è stato per Marx, con la sua affascinante teoria sulla giustizia sociale attraverso la socializzazione delle risorse economiche e la distribuzione equa del capitale. Teoria però ben presto crollata, nonostante un certo contributo in termini di differente visione dell’assetto societario che ha sollevato movimenti e mutato il tessuto economico planetario. L’idea della trasformazione attraverso la nascita di un proletariato industriale e dello sviluppo della lotta di classe rivoluzionaria, fondamenti del nascente comunismo, muovevano verso l’annientamento della produzione in capo al privato e l’affermazione della collettività nella gestione della produzione e perfino verso l’abolizione della disparità tra città e campagna. Quale messaggio per l’urbanistica? Perché questo è il punto, questo qui interessa, visto che – a scanso di equivoci – non ho alcuna intenzione di eseguire un’analisi politica.
Contrariamente a ogni previsione, basti concentrarsi sulla ben più drammatica disparità odierna tra città e campagna, vertiginosamente crescente nel corso di due Secoli, per capire come ben presto il pensiero marxista – che non ha fatto i conti (ma non avrebbe potuto) né con le ambizioni e le contraddizioni della mente umana, né con le violente (in termini temporali) trasformazioni industriali – ha visto l’affermarsi della sua utopia. E quel proletariato, che per Marx rappresentava l’anello mancante all’affermazione decisa del socialismo, ha nel tempo contribuito – anche per l’avvicendarsi della seconda e terza rivoluzione industriale – alla nascita del nuovo capitalismo. Fattostà che oggi nel mondo 8 uomini posseggono 426 miliardi di dollari, praticamente quanto possiedono 3,6 mliardi di individui, pari alla metà più povera del pianeta. E fattostà che il fenomeno è in aumento e oggi l’1% dell’umanità possiede più del restante 99%. Affermazioni contenute nel Rapporto Oxfam e divulgate in occasione del World Economic Forum.
Ma oggi è anche e soprattutto la città il luogo della disparità, il luogo che accoglie ogni condizione sociale, ben oltre la campagna ormai divenuta periferia del mondo. Un processo incontrollabile che sta alla base dell’odierno dramma urbano.
Anticipatrice, in qualche modo opposta e più concreta è stata l’esperienza di Robert Owen. Quello stesso Owen che noi architetti siamo portati a ricordare solo per il grande contributo in termini di città-giardino (ancora oggi, sempre più coinvolgente modello di sviluppo urbano meno insostenibile – l’esempio, tra i tanti, dell’Endless Vertical City ne è una conferma), è stato un concreto socialista, un uomo che ha combattuto intensamente anche sul duro campo di battaglia della trasformazione urbana. Non soltanto un teorico, dunque.
Tramite le sue azioni, Owen ha tradotto il socialismo utopistico in concretezza, riconducendolo alla prima forma di socialismo realmente attuata, basata sul riformismo e mirata alla costruzione di una società collaborativa. Ha così costituito associazioni comunitarie e filantropiche, fondate sulla fratellanza e sul comunitarismo. Fin quando, nel 1817, ha enunciato il suo modello socio-urbanistico tramite il disegno di una città ideale, già allora considerando pregnante il rapporto tra urbanizzazione e Natura.
Il suo piano attribuisce 1.500 acri di terreno a 1.200 abitanti. Su pianta edilizia quadrilatera (tre lati sono composti dalle abitazioni, l’ultimo dai dormitori per bambini), destina l’interno agli edifici pubblici suddivisi in settori funzionali e immersi nel verde. Oltre il quadrilatero distribuisce orti e giardini; ancora oltre le strade di collegamento e, più in là, gli impianti industriali. Il piano di Owen rappresenta il primo disegno urbanistico moderno attentamente sviluppato, sia nella direzione delle ideologie politico-economiche di ispirazione, sia nel programma edilizio e nel preventivo finanziario. La contrazione del consumo del suolo, la distinzione tra città residenziale e città produttiva, l’eco-sostenibilità, il rapporto coerente tra luoghi del vivere e primarie funzioni urbane, sono temi che Owen affronta nel suo modello di città ideale. E sono gli stessi temi che, con dimensione differente, sono alla base dell’attuale ricerca sul futuro urbano.
Quella che segue è una delle immagini più note della New Harmony (fonte: web.tiscali.it, rintracciabile anche nei trattati di Benevolo), sperimentazione nata in Indiana nel 1825 dal suo stesso modello di città, purtroppo destinata al fallimento per contrasti nella gestione e rivolte di gruppi di abitanti. Ciò non è forse riconducibile all’impossibilità di prevedere e razionalizzare la mente umana? Già, perché se una pecca Owen ha avuto è stata quella di riporre sconfinata fiducia nell’umanità.
Lontano dalle sole teorizzazioni (a differenza di Marx) e dalla pura critica globale alla civiltà moderna, Owen, prima dipendente e poi industriale, è dunque stato un effettivo ed efficace anticipatore, un convinto sperimentatore che ha cercato di tradurre in pratica le sue lucide teorie, fino a pagarne conseguenze personali enormi: dalla conquistata ricchezza alla drammatica povertà per aver impiegato ogni sua risorsa nel tentativo di migliorare gli spazi della vita collettiva. Ha combattuto e gli si deve rispetto, oltre che riconoscimento scientifico.
Ancora oggi, in ambito urbano egli è il più contemporaneo dei pensatori politici. Ancora oggi le sue idee di pianificazione, perfino assorbite dai riferimenti normativi di molti Paesi, vengono in soccorso nello sviluppo progettuale degli strumenti regolatori alle differenti scale. E ciò, a prescindere dalle distorsioni pratiche.
Owen ha guardato creativamente alle trasformazioni tecnologiche e, sebbene impossibilitato a capirne – come tutti – l’enorme peso evolutivo, ha comunque saputo generare modelli urbani e architettonici che ancora guidano il futuro dell’architettura.
Sono convinta che se l’urbanistica avesse saputo seguire coerentemente l’evoluzione che il pensiero di Owen ha introdotto, partendo dalla sua lucida ricerca e da quelle sue straordinarie sperimentazioni (che avrebbero potuto portare molto lontano), il mondo sarebbe migliore e più equo. Ma sono intervenuti anni di grande buio (guerre, crisi, distruzioni, smodate e irrazionali ricostruzioni) e hanno spezzato un percorso che oggi, finalmente, riafferma la sua validità. Una speranza per il domani.