La Città di Celentano
Giovani, laureati di fresco, speranzosi e spensierati, il mio amico Alfredo e io viaggiavamo spesso insieme per raggiungere Latina in automobile. Lui, avvocato, finiva in Tribunale; io al lavoro in uno studio di architettura.
Erano viaggi allegri, dove si cantava. Lui intonato, io niente affatto. Ma che importa: era divertente. E si cantavano soprattutto le canzoni di Celentano (la voce di Alfredo era molto simile). E, tra l’altro, immancabilmente si cantavano Il ragazzo della via Gluck e L’albero di trenta piani, forse inconsapevolmente fieri di vivere in un paese con una posizione geografica e climatica invidiabile.
Recentemente, se ben ricordo era il 6 gennaio (giorno del suo ottantesimo compleanno), Celentano si è esibito in TV con un concerto davvero molto bello: un artista straordinario, con una voce straordinaria, con canzoni bellissime. Non più lunghe pause (come accadeva in passato), forse meno molleggiato, tuttavia dinamico nell’alternare i brani e colmo di matura professionalità. Per me è stato un piacevole tuffo nei felici trascorsi.
Ma non è di questo che voglio parlare, quanto invece dell’intuizione dell’artista riguardo il futuro urbano.
Siamo nel 1966 quando Celentano canta per la prima volta Il ragazzo della via Gluck. Siamo soltanto nel 1966 e lui narra la storia di un ragazzo che si trasferisce dalla via Gluck, un tempo strada di campagna, in città. Sempre col cuore pieno del suo luogo d’origine, il ragazzo fa strada e decide di tornare in via Gluck per ricomprare la sua vecchia casa. Ma:
Torna e non trova gli amici che aveva. Solo case su case, catrame e cemento.
Là dove c’era l’erba ora c’è una città. E quella casa In mezzo al verde ormai, dove sarà?
Ed è il 1972 quando Celentano lancia L’albero di trenta Piani. Nel brano, rivolgendosi a una donna, l’accusa amaramente di averlo costretto a vivere in città:
Per la tua mania di vivere in una città, guarda bene come ci ha conciati la metropoli…
Tutti grigi come grattacieli con la faccia di cera… È la legge di questa atmosfera, che sfuggire non puoi fino a quando tu vivi in città.
E di qui bucoliche narrazioni di una salutare vita in campagna, tra gli alberi e il canto delle allodole, contrastate dal grigiore urbano, dove i motori delle macchine già ci cantano la marcia funebre. E poi il cielo oscurato dai fumi delle fabbriche, e poi la nevrosi, e poi il soffocamento. Tutto mentre si sta alzando un nuovo edificio di trenta piani, perché il Comune vuole una città moderna.
Intanto, nel 1969, sarcasticamente Giorgio Gaber lancia la sua Com’è bella la città: una città piena di luci, di vetrine, di magazzini, di macchine. E dunque Vieni, vieni in città. Che stai a fare in campagna, se vuoi farti una vita…
Arriva poi il 1977 e Pino Daniele presenta il suo pezzo Napul’è. Un omaggio alla sua terra bella e dolorosa, è vero, ma anche una lucida espressività di tanti problemi urbani.
Eppure quegli anni sono davvero lontani – non tanto in tempo quanto in possibilità di prevederli – dagli immensi drammi della città contemporanea.
Dunque e a conti fatti, questi grandi artisti italiani non sono forse stati degli anticipatori straordinari?