Il Grande Processo
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Reale e immaginario a confronto.
E’ la storia di una donna giovane, vittima e colpevole di un passato difficile.
All’interno di una Roma mutevole, subisce alcuni presagi che le annunciano l’imminenza di un processo, di cui non conosce né la ragione, né l’accusa, né i tempi. Ma il processo arriva e la protagonista percepisce l’attimo in cui ha inizio. Così diventa accusa e difesa di sé stessa, in una continua confusione tra quotidianità e sogni, che le fa perdere la percezione della separazione tra reale e immaginario.
Il grande processo si consuma tra ricordi ed emozioni: amori, ossessioni e tradimenti riemergono e definiscono un percorso articolato e imprevedibile. All’interno di questo calvario, scandito da continui momenti di suspense, lei vive un alternarsi pericoloso di sensi di colpa e desideri d’espiazione, fino al drammatico epilogo.
(Un ricordo affettuoso va al maestro Giorgio Albertazzi
che apprezzò questo mio lavoro e mi donò la colta prefazione che riporto a seguire)
Prefazione di Giorgio Albertazzi
Sul romanzo di Elodia Rossi: “Il grande processo”
Un bel romanzo, che romanzo in senso stretto non è perché si tratta piuttosto di un poema in prosa, con poche connotazioni romanzesche nel senso vagamente dispregiativo che questa definizione assume al principio del secolo XVIII, da cui discende poi il “romantico”. Il poema di Elodia Rossi è un viaggio verso l’anima, l’anima come archetipo della vita. Perché la vita viene all’uomo (il maschio, secondo Jung) attraverso l’anima, sebbene egli pensi che gli venga attraverso l’intelletto. Eppure questo è uno dei temi se non addirittura il tema di fondo del libro della Rossi. “Il profondo limite dell’uomo è credere che la verità sia nel razionale”. Questo assioma sintetizza bene perfino con una punta di sarcasmo il “senso” di tutto il racconto.
Alla protagonista l’autrice non dà un nome ( viene in mente il Pirandello dell’Enrico IV, che non dà un nome al suo protagonista forse perché protagonista dell’Enrico IV è la follia e la sua simulazione: “come vero”, dice Enrico IV, “soltanto così non è più una burla la verità”). La verità dunque è la sentenza del processo che la protagonista intenta a sè stessa e che il “sogno” che si combina incessantemente con la realtà, le intenta.
Veniamo alla pagina: un viaggio si è detto, le cui tappe o sezioni si snodano in capitoli brevi, ritmici, dove ha un senso anche lo spazio bianco della pagina, come una sospensione. Perchè lo stile è jazz, con improvvisi arresti e cesure ritmiche. E improvvise accelerazioni, in cui l’impeto (stavo per scrivere l’improvvisazione) sembra prendere la mano all’autrice e la frase si fa incalzante per cedere a surplasse mozzafiato. Ne è una prova la grande sequenza della sfida mortale fra i due cugini rivali (Francesco e Giacomo) che cavalcano le onde di Sabaudia sui loro surf come su cavalli da torneo medioevale. Una sequenza cinematografica di grande fattura dove la Rossi governa la materia narrativa con maestria, senza direi, lasciarsi coinvolgere se non spiritualmente.
E’ la scena che vede la morte dell’amato, mite Francesco, padre del figlio che la protagonista porta in seno e che di lì a poco tutta invasata dal suo delirio di “amore universale” tradito e martoriato, perderà. “Non ho pensato a te, così aggrappato alla mia esistenza, così piccolo e indifeso”. E lo incontra il piccolo perduto, lo ritrova o lo sogna, lo fa rivivere in un’ombra o in un minuscolo cucciolo di gatto, una creatura buttata via nella spazzatura che grida la sua solitudine, lo prende lo nutre, lo scalda. Invano. Il gattino muore. Le ultime venti pagine del romanzo sono attraversate da una parola ripetuta e reiterata: razionale e irrazionale. Sono due parole, ma la radice è una sola. Sembra questo il dilemma dell’autrice. Lo è, in effetti. Ha perciò ragione Jung quando dice che la vita, la vera vita arriva alla donna, di cui è anche vittima, arriva alla donna attraverso l’intelletto (l’animus) malgrado essa viva per così dire, abitualmente, con l’Eros.
La protagonista impara così nel dolore d’amore, a capire la morte. “Imparai a capire la morte. Imparai ad amare la morte. La mia morte”. Tre volte ripetuta la parola, stilema che spesso l’autrice adotta, reiterandolo ritmicamente. E si convince che qualunque cosa abbia a che fare con lei, sia destinata a finire. Da qui, ma non soltanto, il senso di colpa che la ossessiona, fino dall’inizio del suo viaggio, senso da cui discende il sentimento del “grande processo” che sente incombere sui suoi giorni. In realtà il processo è la visita spettrale del “guardiano della soglia”. E’ cioè l’interrogazione coscienziale, la sua presa di coscienza: ora potrà morire senza cessare di esistere. Il risveglio fisico e spirituale, ma dovremmo dire etico, la trova intontita. Ha dormito realmente pochi attimi, durante i quali il grande viaggio e il grande processo sono accaduti. Sono le ultime pagine dove il ritmo diventa sincopato, la prosa si scioglie in ballata. E’ sola. Il bambino cui aveva offerto il gelato (altra sequenza memorabile per tenerezza e pathos, in realtà non c’è, non c’è mai stato. ” Non c’è. Non c’è. Non c’è. Dove sei? Dove sei?…Il cuore batte, batte”.
La pazzia che sembra investirla come un torrente furioso, in realtà è liberazione, è forse accrescimento della vita, forse è confidenza nella morte possibile e risolta. Intelligenza e ardore. Testimonianza del dolore e dell’amore. Ora potrà vivere con amore e dolore, ma con levità e con grazia.
Un bel libro.
Una stimolante lettura.