Idea e Tecnica
Ho più volte sottolineato l’importanza dell’idea nella creazione architettonica. Faccio riferimento a molti dei miei precedenti articoli, in particolare a quelli destinati agli studenti di architettura.
Nel concepire l’idea giusta sta il successo dell’opera che si progetta. A questo punto subentra la tecnica, ossia la capacità di trasformare l’idea in progetto e, poi, in realizzazione. La dote necessaria, patrimonio di ogni bravo architetto, sta nella capacità d’immaginare anticipatamente l’opera compiuta. Il percorso progettuale suggerirà dettagli, affinamenti, particolari aggiuntivi.
Voglio dare uno sguardo alle arti in genere. La pittura, per esempio, o la scultura. Un bravo pittore sa che la sua idea troverà esplosione su una tela a lui affidata, quale trasposizione del suo immaginario attraverso i colori, le matite, le pennellate. E questa trasposizione dovrà essere autentica, caratterizzata nello stile, impattante. Bene, questa è tecnica. Laddove mancasse, l’autore dell’idea non sarà mai un bravo pittore.
La poesia e la musica hanno smarrito i canoni ritmici, senza aver trovato soluzioni alternative altrettanto valide. Dunque viene a mancare il terreno fertile su cui impiantare la tecnica e, a fronte di pochi che ricercano elementi di condivisibile artisticità, i tanti si incamminano su sentieri oscuri e destinati all’oblio.
La mediocrità non paga nel tempo e non appaga mai. Il superamento della tecnica (e dei principi su cui fondarla) mortifica finanche l’idea.
Altrettanto accade in architettura. L’idea regna, è essa stessa architettura, è il Principio, il Verbo. Ma la tecnica è lo strumento per la sua concretizzazione. E non si tratta banalmente di saper utilizzare strumenti di disegno, soprattutto se informatici. Piuttosto si tratta del saper seguire il percorso progettuale, affinarne gli elementi nel tempo, gestirne gli eventuali cambiamenti. Il rapporto tra architetto ed elaborato progettuale è intimo, sofferto, pensato e perfino soggetto a mutazioni.
La contemporaneità ha purtroppo imposto il sopravvento dell’individualismo, come ho già affermato in circostanze differenti. In arte e, naturalmente, in architettura questa imposizione – probabilmente scaturita dai media, dall’affermazione dell’immagine nelle sue forme più varie e contrastanti – ha generato danni enormi. Il superamento di ogni canone, l’assenza di ricerca tesa all’individuazione di norme comuni, il concetto di bellezza dato in pasto al gusto di una collettività ormai sovraccarica di superfetazioni (mi sia concesso il termine), l’uso (o abuso) personalizzato dell’etica, hanno generato il massacro. Un danno enorme, che ha forti ripercussioni non soltanto nell’elaborazione dell’idea, ma anche nella sua restituzione.
Così oggi, fatte salve le poche nicchie culturali ancora genuine, passano per essere artisti molti pittori e scultori, musicisti e poeti, fino agli architetti, che utilizzano più la stravaganza (talvolta perfino il cattivo gusto) che la tecnica.
L’architettura paga più di ogni altra arte. Perché l’architettura è paesaggio, è ambiente, è generalmente destinata a caratterizzare ogni luogo per tempi lunghi, a segnare le epoche, a scandirne i passaggi. L’architettura ha dunque un ruolo fondamentale nella formazione della collettività.
L’Italia, in particolare, soffre per essere ancora soggiogata al suo glorioso passato (Rif. Art. Un Problema di Cultura) e combatte il clima di disorientamento non con la dovuta ricerca d’innovazione – cosa che in altre Nazioni sta finalmente avvenendo – ma con quel deleterio e nostalgico ricordo che si trasforma in simulazione. Il peggiore dei mali.
All’interno di uno scenario collettivo estremamente confuso, artefatto dal consumismo sfrenato, l’arte vera, quella che trasmette emozione e che esclude la mediocrità, quella che discende da raffinata e intrigante ricerca, finanche tramite colte azioni dialettiche, sembra essere morta.
Non possiamo permetterlo.