Conferenza Nazionale sull’Architettura
Formazione, ricerca e professione per una strategia di sistema dell’architettura italiana.
Sull’elaborazione di questo concetto (a cui personalmente avrei aggiunto il fattore “politica” che di fatto è stato inserito nella discussione) si è dispiegata la Conferenza Nazionale sull’Architettura del 27 aprile scorso. Un percorso, valido anche per l’acquisizione di crediti formativi, che finalmente mi ha coinvolta. Un convegno dinamico, ben strutturato, con contenuti densi, convincente.
Mondo dell’Università, mondo delle professioni, mondo della politica a confronto. E i temi trattati dai relatori sono stati davvero entusiasmanti, al di là di qualche cedimento (emerso verso la fine della giornata) riguardo il solito e beffardo pensare che l’Italia sia al centro del mondo per bellezza e cultura, peraltro ben rettificato dal Vice Ministro alle Infrastrutture (Nencini) nel lucido, colto e astutamente provocatorio intervento di chiusura.
Molti i temi affrontati – dal contrasto all’uso del suolo alla qualità della pianificazione, alla rigenerazione urbana, alla diffusione della cultura della progettazione/pianificazione sostenibile, alla pluridisciplinarità in architettura, eccetera – anche in relazione anche alla necessità del rinnovamento dei percorsi formativi universitari per i futuri architetti italiani.
Molte, di conseguenza, le proposte e altrettante le illustrazioni di percorsi e azioni già avviati. Interessanti iniziative che rapportano le Istituzioni dello Stato con le Associazioni di settore. Al tavolo del confronto elevati esponenti del CNAPPC, il CRUI, il CRESME, del CUIA, della Commissione Cultura della Camera, del MATTM, del MIUR, dell’European Association for Architectural Education, e altro ancora. Grande professionalità del moderatore, Mauro Salerno, giornalista de Il Sole 24 Ore.
Il futuro passa solo dalle città, lo slogan adottato dal Vice Ministro mi è sembrato più che mai calzante. E, con esso, la chiara obiezione alla scarsità di investimenti, contrapposta all’invece certo spreco pubblico.
È emerso, tra l’altro, il grande argomento della globalizzazione o internazionalizzazione della professione. E si è parlato del valore dell’architetto italiano nel contesto internazionale.
Ma che succede? Perché – ed è assurdo – l’architetto italiano che si muove oltre confine produce architettura, innovazione, trasformazione? Perché se oggi (contrariamente al passato) agisce in Italia resta costretto entro schematismi rigidi e deleteri?
Dal mio punto di vista (ne ho parlato in molti articoli), questo tema è il più delicato e quanto è emerso ne è la conferma. Difatti, se è vero che l’Italia in passato ha avuto un ruolo dominante in architettura, è altrettanto vero che oggi non tiene il passo col resto del mondo. Derivazione del preoccupante e limitativo modo con cui si guarda la trascorsa gloria. La battuta d’arresto è evidente a chiunque. Così oggi l’Italia, ancorata alla salvaguardia, dimentica l’innovazione e annienta il progresso. Manca l’idea di una nuova architettura.
Quale futuro per i 134.310 architetti italiani? Il nostro è il Paese che contiene più architetti in Europa. E oltre 89.000 esercitano la professione, con un insostenibile tasso di disoccupazione pari al 31%. Senza contare che il reddito medio dei senior si aggira intorno ai 24.000 euro/anno (contro i circa 55.000 della Svizzera), mentre quello degli junior si attesta a 9.000. Valori certi, che espone Inarcassa. Valori preoccupanti, ancor più se si considera che il dato medio dei senior è alterato da alcuni nomi altisonanti e dagli studi di architettura dimensionalmente più grandi.
Dunque che altro succede, oltre la ben nota crisi mondiale che in Italia sembra aver trovato terreno fertile più che altrove? Quali confronti e quali risultati per la professione dell’architetto sul piano della geopolitica? Quale risposta concreta dovrebbe giungere dalle Università? Quale riforma dovrebbe essere introdotta nelle Facoltà di Architettura?
Succede che il sistema politico non funziona. La burocrazia, il sistema legislativo, i vincoli amministrativi sono estenuanti (si pensi al dilagante e farraginoso ruolo delle Soprintendenze anche in ambiti di scarsa o inesistente artisticità – un esempio è l’autorizzazione paesaggistica all’interno del procedimento edilizio).
Succede che le Università non formano, piuttosto informano e talvolta perfino in modo obsoleto. Le Facoltà di Architettura dovrebbero essere laboratori aperti e continui, interfacciati col mondo del lavoro, come avviene in altri Paesi. Si dia uno sguardo all’Accademia di Architettura della Svizzera Italiana, per capire.
Personalmente credo che il grande problema (o vincolo) delle Università sia dovuto alla classe docente. Ai meccanismi oscuri che regolano i concorsi, alla generalizzata estraneità alla professione della gran parte dei professori (con le dovute eccezioni), alla vetustà del sistema formativo (non tanto nella direzione dell’organizzazione generale – sulla qual cosa pure ci sarebbe da riflettere, quanto in molti dei programmi di studio).
E succede che questi generi di formatori, deputati a forgiare i futuri architetti, non sono formati all’innovazione. Forti di un ruolo che in questo Paese viene considerato quasi sacro, troppo spesso sono chiamati a formare anche noi professionisti in corsi per l’acquisizione di crediti. Come può chi non ha mai lottato sul campo di battaglia della professione avere la capacità di parlare a chi, al contrario, si scontra quotidianamente con l’esercizio dell’architettura? Personalmente ho vissuto esperienze inquietanti. Ma tornerò sul tema della formazione lungo tutto l’arco della vita, su come essa è spesso interpretata, in un altro articolo.
È andato benissimo, invece, l’ascolto della Conferenza Nazionale sull’Architettura che si è rivelata, finalmente, un serio e costruttivo apporto di informazioni, oltre che l’attestazione di una presa di coscienza riguardo l’oggi dell’architettura italiana.
È la stagione di un cambiamento epocale – dalle parole del Vice Ministro – facciamo in modo che non si perda l’occasione.