Architetti al collasso
Nel corso della Conferenza Nazionale sull’Architettura – e faccio riferimento al mio articolo pubblicato con lo stesso titolo – sono stati manifestati dati sulla professione dell’architetto in Italia che fanno, a dir poco, paura.
Dalla crisi internazionale, alla mancanza di una strategia unitaria per la professione, all’oscuro regime di tassazione, alla carenza del sistema formativo universitario (se fosse efficiente non ci sarebbe motivo di pensare all’ennesima riforma) e post universitario, alla mancanza di indicazioni solide per l’internazionalizzazione della professione, alla scarsa efficacia di alcune delle istituzioni di tutela del settore, all’ancor più scarsa efficacia delle politiche generali, al contorto e complesso sistema legislativo, all’ostacolo continuo dovuto all’eccessivo sistema vincolistico, fino alla mancanza dell’idea di una nuova architettura (tema a me molto caro) tragicamente oscurata dall’ipocrita e diffusa convinzione di detenere lo scettro dell’arte nel mondo, l’architetto italiano subisce la drammatica ripercussione di decenni di oscurantismo, presunzione e corruzione.
Senza tornare all’analisi delle ragioni che hanno determinato questo insostenibile e doloroso traguardo, mi soffermo sulle sorti dell’architetto. In perenne ricerca di una strada solida, la gran parte dei professionisti si dimena all’interno di un sistema malato che lascia poco (o niente) spazio alla ricerca dell’arte e tanto all’estenuante tentativo di sopravvivere. E così l’architetto, quello vero, quello che ama la sua professione, è confuso, umiliato, massacrato dall’impossibilità di esprimersi come vorrebbe e come sarebbe giusto avvenisse.
Riprendo alcuni dati: l’Italia conta 134.310 architetti, attestandosi al primo posto, per numero, in Europa. Ben 89.000 di questi esercitano la professione. Gli altri sono diversamente occupati (in uffici pubblici, per insegnamento, in azienda private, e via dicendo). Il tasso di disoccupazione degli architetti è pari al 31%. Il reddito medio dei senior è di circa 24.000 euro/anno, tra i più bassi d’Europa. Quello degli junior è di circa 9.000. Sono valori lordi che, sottoposti alla feroce tassazione di questo Paese, configurano un quadro reale complessivo a dir poco spaventoso.
Esistono poi i colossi dell’architettura (pochi, per la verità, ma ci sono): nomi d’eccellenza, studi particolarmente importanti (mai troppo grandi, visto che in Italia non ne esistono e che questo fattore è considerato il primo degli ostacoli all’internazionalizzazione), che incidono fortemente sulla media del reddito dei senior. Cosa dunque rimane agli altri? Un delirio.
E difatti il numero degli iscritti agli albi si sta riducendo, sempre più frequentemente studi professionali cadono in crisi e chiudono; di pari passo diminuisce il numero degli studenti di architettura. E non è sufficiente pensare che gli architetti italiani sono molti. Una constatazione che dovrebbe semmai tradursi in orgoglio. Piuttosto, la contrazione di oggi deriva da uno scenario di generalizzato malcontento, dalla sofferente presa di coscienza di vivere in un Paese in insopportabile degrado culturale e funzionale. Alcuni architetti, quelli che riescono, espatriano. Non tanto per il desiderio di internazionalizzare la propria esperienza, quanto per il bisogno di vivere e di esprimersi. Perché, se è vero che l’internazionalizzazione potrebbe essere un valore aggiunto, è altrettanto vero che essa dovrebbe avvenire con le radici in Patria.
E i giovani? Costretti a fare i conti con una media di 9.000 euro, dai cui scorporare tasse e contributi? Senza concreta possibilità di proiezione verso il mercato libero professionale, passano il tempo a inviare curricula e sostenere concorsi. Ma anche qui la lotta è dura, la competizione è enorme, le regole non sono certamente leali. Il mercato – anch’esso devastato – approfitta, si adatta, trova appigli convenienti in misure dello Stato (un esempio è la Garanzia Giovani) e il giovane architetto si accontenta nella speranza di un domani migliore.
Molti si trovano a scontrarsi perfino con la redazione del curriculum, le cui nuove formulazioni sono piuttosto rigide e calate in schemi stabiliti dall’U.E. Come se ce ne fosse bisogno anche all’interno del mercato italiano, senza contare che – all’atto pratico e in alcuni casi – c’è perfino difficoltà di riconoscimento immediato della propria laurea all’estero. La Delibera 2005/36/CE è carente in alcuni passi e, per esempio, omette di introdurre la laurea in Architettura – Progettazione Architettonica (roba da matti). “Perché?”, bisogna chiedersi. Facile rispondere: perché il MIUR – dopo aver decretato la variazione dei nomi alle lauree 3+2 – non ha comunicato alla Commissione l’elenco completo delle nuove nomenclature, ma solo parziale. Viva l’Italia.
E così i giovani, per tornare al curriculum, tentano strade persuasive, speranzosi che qualcuno legga, spesso ignari che la quasi totalità dei loro invii viene cestinata. Ma è l’epoca del curriculum con portfolio (orribile appellativo) e, se non altro, la speranza che l’immagine possa determinare curiosità nei destinatari, spinge ancor più verso un’articolazione convincente dei contenuti. Il web esplode in suggerimenti e ipotesi formulative di ogni genere. Il mercato parallelo delle proposte consulenziali cresce esponenzialmente e il povero giovane architetto resta confuso, fino ad affidarsi alla più suadente e (naturalmente) pagare fior di quattrini.
Un mondo variegato che ho esplorato per pura curiosità. Ma predisporre un curriculum di architetto non è come redigerne uno di avvocato o di commercialista, eccetera. Nell’architettura, l’immagine gioca un ruolo dominante. Tra le tante proposte che ho letto ed esaminato, una mi convince abbastanza. È avanzata da un giovane esperto di visualizzazione architettonica e ha la forma di un manuale per soli architetti. Interessante direi, anche perché non si sostituisce al professionista, invece lo guida nel percorso di elaborazione del proprio – come lui lo chiama – SOS portfolio ( http://88b935mjtktdxwf5lgn8itr9-7.hop.clickbank.net/ ). Niente male.